Concludo la giornata proponendovi alcune riflessioni sui racconti per bambini che affrontano argomenti difficili, quelli che dovrebbero essere trattati per il semplice fatto che esistono, ci sono, fanno parte della vita, ma che per parlarne si può rischiare di inciampare sopra terreni minati.

Nelle ultime settimane, scoprendo nuovi albi illustrati, mi sono posta alcune domande riguardo ciò che ci aspettiamo (noi adulti) dai libri per bambini. Siamo noi, in qualche modo, a fare da tramite tra i giovani lettori e un libro, scegliendo un titolo piuttosto che un altro. Che cosa, quindi, vorremmo leggere o proporre in lettura ai bambini? Cosa, invece, i lettori in erba auspicherebbero di trovare nei libri? Sono domande alle quali non è certo possibile fornire una risposta unica, poiché le motivazioni che ci muovono verso le pagine di un libro sono infinite. Indubbiamente però, queste domande sono al centro delle riflessioni di editori e autori in merito alla scelta delle tematiche da proporre al loro possibile pubblico.

Potremmo delineare, nel panorama dei libri per l’infanzia, un genere formato da un numero sempre più ampio di racconti che hanno come centro di interesse particolari storie tratte dalla realtà o argomenti di carattere strettamente sociale. In qualche modo il loro obiettivo è quello di sostenere i bambini o i ragazzi che stanno affrontando situazioni simili a quelle raccontate. La vicenda del protagonista della narrazione è descritta spesso in maniera intima e introspettiva e può generare:

  • un processo d’identificazione da parte del lettore che vive un’esperienza simile, poiché fornisce le parole per riconoscersi e comprendersi;
  • la possibilità di scoprire realtà diverse, di accoglierle e di comprenderle, quando il lettore non è coinvolto personalmente in un’esperienza simile ma potrebbe potenzialmente esserlo, anche in maniera indiretta.

In questo panorama di racconti si aggiunge un nuovo titolo alla collana Orango Rosa di Margherita Edizioni. Collana dedicata proprio a quegli argomenti spesso elusi nei libri per bambini, come spiega lo stesso editore in una corrispondenza: “La collana Orango Rosa è nata proprio per affrontare temi difficili, dei quali spesso si preferisce tacere con i bambini. Argomenti tabù che, in maniera scorretta, non vengono proposti per il timore di non avere i giusti strumenti per maneggiarli oppure perché, erroneamente, si crede che i bambini non siano in grado di comprenderli. Dopo i primi titoli dedicati a temi come bullismo, bambini con genitori separati, omogenitorialità, solidarietà e inclusione ed emancipazione femminile, si è scelto di fare un passo in più e arrivare a trattare un tema ancora più spinoso e certamente meno conosciuto“.

I titoli oggi in catalogo sono sei, di questi potete già trovare nel blog le recensioni di: “Il mio filo rosso”, che affronta la separazione dei genitori (2019); “I due papà di Fiammetta”, un racconto dedicato alle famiglie omogenitoriali (2019); “Qui comandiamo noi”, una storia sul tema del bullismo (2020); “Mary si veste come le pare”, una vicenda d’altri tempi che parla di parità di genere (2020).

L’ultimo albo, pubblicato lo scorso 24 marzo, racconta invece la disforia di genere attraverso la vicenda di Giulia, una bambina che fin da piccola è coinvolta in un sentimento dissonante tra ciò che sente di essere e le aspettative trasmessele dagli adulti. Il racconto è di Fulvia Degl’Innocenti, scrittrice e giornalista arrivata al traguardo di ben 100 libri pubblicati. Per presentare la storia di Giulia, l’autrice sceglie la silenziosa voce di Max, il cane di famiglia adottato dalla coppia genitoriale già prima della nascita della piccola. Max, da buon osservatore e testimone diretto degli eventi, li ripropone al lettore proprio come si presentano, senza giudicarli.

Dunque ripercorre in maniera didascalica le dinamiche di questa bambina che matura sentimenti di inadeguatezza verso il suo genere biologico. Circa a metà del libro arriva il punto di crisi. Giulia si sente sbagliata e comincia il lungo e doloroso dialogo con se stessa. Si osserva allo specchio e si chiede perché si percepisce tanto diversa da come appare. Quando arriva a comprendere la sua identità, sulla “a” del nome appare simbolicamente una ics. Ora vuole essere Giulio, si racconta nella storia, solo così può sentirsi a proprio agio e in pace con se stesso. Esprime in modo risoluto i suoi sentimenti ai genitori. Questi si trovano, a loro volta, posti dinanzi a un percorso per nulla semplice, eppure necessario. Probabilmente già lo sentivano, però per ammetterlo e accettarlo serve tempo. L’amore li aiuterà ad abbandonare le aspettative sulla “figlia” e a ritrovare e ad accogliere il loro “figlio”.

I personaggi e le vicende sono illustrate da Elena Pensiero, autrice di Gaeta che pone queste righe all’inizio del libro:

Dedicato a tutti i miei amici che si sentono ingabbiati
in un corpo in cui non si riconoscono.
E. P.

Il racconto si pone come un invito ad ascoltare la voce di coloro che affrontano, spesso (se non sempre) in maniera dolorosa, una rottura con le aspettative sociali per riuscire a raggiungere le loro propensioni. Il libro esordisce in un periodo in cui il dibattito sui diritti LGBT è particolarmente acceso anche per le vicende legate alla discussione del Ddl Zan, proposta di legge che mira a prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza fondate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Un progetto legislativo non privo di perplessità.

Rifletto allora su alcuni pensieri tratti dalla dissertazione filosofica che Thomas Nagel sviluppó sulla domanda “Che cosa si prova a essere un pipistrello?“. Anche cercando d’immaginare ciò che sente un altro mettendosi nei suoi panni (con lo stesso corpo, le medesime percezioni…), non potremmo mai arrivare a capire pienamente i suoi sentimenti (così, esattamente come li sente lui) perché non potremmo mai essere lui. Eppure, se non ci riusciamo, poco dovrebbe importare. Ciò che conta è che ciascuno si possa sentire libero di inseguire il proprio destino, senza ricevere influenze o pressioni da parte di nessuna delle due visioni (conservatrice o libertaria).

Nella post-fazione dell’editore si legge quanto quella di Giulia (o) sia una delle tante storie possibili, sicuramente diversa dalle tante altre che esistono su un percorso di vita simile. In effetti, la scelta dell’autrice di raccontare la disforia di genere attraverso, ad esempio, la preferenza che la bambina compie sul gioco (la macchinina anziché la bambola) è, a mio parere, rischiosa in quanto reitera alcuni stereotipi ancora oggi difficili da superare. Resto convinta che le azioni ludiche, così come i giocattoli, siano da considerarsi “neutre” (non riferite all’uno o all’altro sesso). Ogni bambino dovrebbe avere il diritto di giocare con ciò che trova interessante, senza ricevere le proiezioni di una futura sessualità.

Considerando i numerosi casi di “detransitioners” (il pentimento a seguito di un intervento medico invasivo per il cambio di sesso), forse oggi sarebbe corretto domandarsi se una manifestazione precoce (prima dell’età adulta) di confusione sull’identità di genere non vada accolta diversamente, evitando diagnosi avanti tempo che potrebbero rivelarsi dannose e irreversibili. Sicuramente, da ogni schieramento di opinioni arrivino, il giudizio e le forzature sulla vita degli altri (e sui bambini) sono equamente nocivi.