Nel momento in cui il bambino pronuncia queste due parole: «È mio!» oppure anche solo una, «mio!», osservalo bene. Lo dice di pancia, di petto e di cuore. Non è gentile, non lo è affatto, Non ci pensa proprio a dire: «scusa caro bambino, quello sarebbe mio ma…». È invece piuttosto determinato nel suo agire e, attraverso quelle due piccole parole, sta manifestando qualcosa di ben più grande: la sua identità.
Il bambino egoista
"Dice che è tutto suo. È un bambino che non condivide nulla, non è proprio capace di farlo. Ho paura che diventi egoista."
Ti è mai successo di dire o di ascoltare frasi di questo genere riferite a un bambino o a una bambina di circa uno-due anni? Ammettiamolo, lo abbiamo pensato tutti almeno una volta: “Che barba, ma non possono giocare tranquilli!”
In parte sono anche affermazioni vere. In effetti, un bimbo di questa età non appare così propenso a condividere le sue cose (o ciò che reputa suo), di aspettare il proprio turno e rispettare quello degli altri. Non lo è, almeno nel modo in cui piacerebbe tanto ai grandi. Essere convinti che a qualunque età il bambino debba essere in grado di agire secondo ciò che si crede essere “la buona educazione” è una vera e propria trappola per chi educa.

Questo, ad esempio, porta un adulto a decidere di accontentare una richiesta di un bambino solo dopo che ha pronunciato le parole “perfavore e grazie”. Si reputa assolutamente necessario che impari a dirle e, per questo, gliele si ripetono fino allo sfinimento! Va da sé che, in un contesto educativo radicato in tal senso, un bambino di circa due anni che urla «È mio!» rivolto al compagno viene ripreso e riportato immediatamente al valore sociale a lui sfuggito: quello della condivisione.
Alt, con questo non voglio lasciar intendere che non sia corretto sensibilizzare i bambini alla condivisione, alle parole gentili e alla convivenza civile. Ciò che cerco di dire è che i valori sociali e il senso dell’altro non andrebbero mai imposti, ossia ottenuti con la coercizione (“devi”; “se non fai così io…”) o la persuasione (“perché fai così… non lo sai che…”).
Il miglior scenario educativo per un bambino è l’esempio.
Talvolta si esortano i bambini a chiedere "per favore" e a rispondere "grazie", anche per ricevere un semplice bicchiere d'acqua. Succede che gli si dica: "Se non sento per favore non te lo do" e di vedere il bambino pronunciare a suo modo quella parola costretta, quasi come fosse l'abracadabra che gli permette di dissetarsi. Poi succede che, al contrario, ci si rivolga ai bambini dicendogli: "Metti a posto, portami questo e quello, metti le scarpe!". Mi chiedo allora dove siano finiti qui i perfavore e i grazie. Come può, in tal modo, un bambino comprendere il significato del gesto gentile?

La mente del bambino
È quindi necessario compiere un passo in tal senso: comprendere che il bambino non è affatto un uomo in miniatura. La sua mente non funziona come quella di un adulto e non lo farà per diversi anni. Lo sosteneva già Claparède in una lontana seconda metà dell’800: «La sua mentalità non è solo quantitativamente diversa dalla nostra, ma anche qualitativamente: non è soltanto più limitata, è diversa. Bisognerà quindi sempre guardarsi dal passare senza precauzioni dalla psicologia dell’adulto a quella infantile.»
Per questo l’adulto assume per il bambino l’importante ruolo di filtro emotivo e di specchio delle emozioni, in quanto sostiene quella regolazione/interpretazione che egli non è ancora in grado di fare. Sai qual è il modo più efficace per svolgere questo compito? Semplicemente rimandendo accanto. Non servono, infatti, troppe parole o lunghe spiegazioni che spesso “ubriacano” il bambino di nozioni non del tutto adeguate al suo pensiero. Ciò che è invece necessario è sostenere la relazione con il bambino, porsi in modo che lui/lei riesca a sentire di poter contare su di te. Proprio nella relazione di amore e fiducia il bambino può sentirsi persona, riesce a percepirsi unico e riconosciuto, ricevendo dall’altro un’immagine adeguata del proprio sé.
Il principio di questa relazione non è il dictatum educativo ma l’ascolto autentico.
Cosa fare quando il bambino vuole tutto per sé
Quindi cosa bisogna fare quando un bambino vuole continuamente tutto per sé, quando strappa di mano il gioco a un coetaneo o quando due o più bambini non fanno altro che contendersi giochi e materiali?
In queste situazioni, o in altre simili, la tendenza dell’adulto è quella di erigersi a giudice. Ecco alcuni possibili interventi in cui potresti riconoscerti:
- Chi ce l’aveva per primo?
- Ridaglielo, l’ha preso prima di te.
- Fate un po’ per uno.
- Adesso togliamo tutto così non ce l’ha nessuno!
- Devi fare giocare anche un po’ gli altri.
- Non puoi averlo sempre tu!
- Ci sono tanti giochi, perché vuoi proprio quello che ha lui?
Quante di queste frasi hai pronunciato? Io credo tutte! Almento prima di comprendere che nessuno di questi interventi fosse adeguato a rispondere alle azioni dei piccoli.
A un certo punto ho smesso di intervenire. Mi sono semplicemente seduta. Ho guardato e atteso. Nella gran parte dei casi ho notato che i bambini risolvevano da soli la contesa, senza alcun giudizio di valore. Quest’ultimo va cancellato dalla nostra mente perché non c’è, in quest’epoca dell’età evolutiva, una soluzione giusta o sbagliata. Esiste piuttosto la loro soluzione: la possibilità di gestire la situazione autonomamente.
Generalemente, la scena successiva alla contesa gestita in autonomia è che non c’è mai un bambino scontento e uno contento, oppure entrambi scontenti, come succede quando interviene l’adulto a decidere per loro. Ci sono invece due (o più) bambini che hanno già dimenticato e stanno già facendo altro. Questo è ciò che appare, ma dentro sappiamo che hanno fatto un passetto in più nella loro crescita.
Quando è necessario intervenire
Ci sono anche situazioni in cui è necessario intervenire. Dunque, la prima azione è sempre quella di attendere ma ciò non significa fare altro, significa star loro vicino senza intervenire, ma osservando la loro interazione. Può capitare che la contesa approdi in un terreno minato: uno o entrambi i bambini coinvolti intraprendono reazioni aggressive oppure scoppino a piangere.
Nel primo caso è ovviamente necessario intervenire in maniera decisa, prima che la situazione degeneri, per interrompere un comportamente che potrebbe fare male all’altro o a entrambi. Ma anche qui è importante omettere giudizi di valore o decisioni dall’alto di dare il gioco a uno dei due bambini (“visto che fai così non te lo meriti”, “dal momento che non sai giocare lo do a lui”, ecc…).

In entrambi i casi (aggressività o pianto) è bene porsi al bambino come “interprete emotivo”, fornendogli quindi le parole per spiegare ciò che sente. Si tratta di una modalità di intervento di certo più lunga e meno istintiva ma che genera un vero senso di benessere nella relazione educativa e permette al bambino di sentirsi legittimato e compreso nelle emozioni provate:
- Immagino che sei arrabbiato perché lo volevi tu.
- Volevi quel gioco perché in questo momento è il tuo preferito?
- Vuoi provare a dirgli che lo vorresti perche è il tuo preferito?
- Magari è anche il suo preferito, non pensi?
Il mio preferito
Avrai notato che nelle frasi possibili ho ripetuto più volte le parole “il tuo preferito”. Ne ho fatte tesoro cogliendole da mio figlio Fabio che, quando si arrabbiava durante una contesa con il fratello o con altri bambini, e provavo con lui a leggere le sue emozioni, mi spiegava: “Perché quello è il mio preferito!”
Devo proprio ammettere che i miei figli e i bambini di cui mi sono occupata sono stati i miei più grandi insegnanti. Ecco come descrive il dizionario italiano l’aggettivo “preferito”:
Preferito: aggettivo m. sing. Di individuo o oggetto prediletto rispetto ad altri perchè reputato migliore, più meritevole, più adatto, più attraente. (Dal vocabolario italiano)

Questo mi diceva molto di ciò che può provare un bambino. I piccoli vivono i tanti “qui e ora” considerandoli assoluti, per sempre. Quindi ho intrapreso una conversazione a specchio che uso tutt’ora con gli altri bambini (l’ultima frase del dialogo è quella che potrebbe capitare di ascoltare):
– «È mio!»
– «Dici che è tuo perché in questo momento è il tuo preferito?»
– «Sì»
– «Vuoi provare a dirglielo a lui che è il tuo preferito? Ti avviso che potrebbe essere anche il suo preferito.»
– «Puoi dammelo? È il mio peferito!»
Ci sarebbe ancora molto da dire su questo argomento e sicuramente troverò una nuova occasione per farlo. Attendo invece le tue impressioni, domande ed esperienze qui sotto tra i commenti e ti ricordo che sono disponibile per una consulenza pedagogica, il primo colloqui conoscitivo e gratuito.
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In ultimo, non posso che terminare con i suggerimenti di lettura sull’argomento. Questi qui sotto sono i titoli che uso maggiormente, hanno un tono e un ritmo adeguato all’età dei bambini che manifestano episodi di contesa.