Il bambino è appena nato. Grazie all’esposizione al premuroso linguaggio della mamma e del papà è pronto a diventare un “essere parlante”.

L’ascolto della voce materna

Siamo davanti al nostro bambino prenatale. È appena nato. Grazie all’esposizione al premuroso linguaggio della mamma e del papà, avvenuta durante la vita fetale, il bimbo è pronto a diventare presto un “essere parlante”. Il cordone ombelicale che lo ha nutrito e tenuto legato alla mamma è stato tagliato: è il momento del primo contatto “pelle a pelle”.
È stato dimostrato che, se durante i primi novanta minuti dalla nascita il neonato viene posto sulla pancia della mamma, si tranquillizzerà più velocemente rispetto ad un altro che, dopo essere stato lavato e vestito, viene adagiato nella sua culletta.
L’attaccamento, caratteristico della diade mamma-bimbo, è pronto a far capolino. Le poppate faranno il resto, con la messa in circolo dell’ossitocina che predisporrà mamma e bimbo alla “relazione sicura” (Bowlby J. 1969).

voce materna

Ma cos’è l’attaccamento e cosa c’entra col linguaggio?

L’attaccamento è una relazione costante ed emotiva con una determinata persona; la stessa relazione coincide con i bisogni primari di un bambino ed è vitale e necessaria alla sua sopravvivenza. Gli conferisce sentimenti di sicurezza, protezione, consolazione e benessere. La perdita o il pericolo di perdita della mamma o del suo sostituto provocano nel bambino sentimenti di intenso stress.

Il soddisfacimento dei bisogni primari di un bambino è appagato dalla madre o da chi ne fa le veci, l’importante è che si agisca con amore, ossia con un sentimento profondo, ampio e incondizionato. Il papà in questa prospettiva è anche lui agente amorevole (portatore dello stesso sentimento) sia a sostegno della propria compagna sia verso il proprio bambino, un sostegno che registra un vantaggio benefico nella relazione positiva e costruttiva madre-bimbo. Un equilibrio fra i ruoli attivi della coppia genitoriale permette, quindi, di fornire risposte corrette e tranquillizzanti agli appelli del bambino, qualsiasi sia il suo stato emotivo o psicofisico.

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Ora, davanti a noi abbiamo un bambino che cresce grazie alla holding, l’involucro psichico e fisico con cui la mamma lo sosterrà e lo conterrà, e alla handling, la cura attenta e premurosa e non morbosa o ansiogena. È in tal modo che la mamma permetterà al piccolo di sperimentare le prime frustrazioni alle quali egli reagirà apprendendo in risposta soluzioni che lo faranno passare da una condizione di estrema dipendenza alla progressiva autonomia.

Se una mamma agisce e si muove lungo questo equilibrio è “sufficientemente buona”, rassicura Winnicott (1953) e, attraverso holding e handling, il bambino progredirà lungo un sano sviluppo affettivo che sarà cliché (imprinting) per il resto della sua esistenza.

Nei primi mesi di vita il bambino emette suoni che a loro volta producono effetti su chi lo ascolta. Egli sarà presto occupato ad intraprendere conversazioni molto particolari: con il cooing sound, (emissioni modulate che somigliano al tubare) giungerà a vocalizzare all’unisono con la sua mamma e l’effetto sarà fonte di piacere quasi inesauribile, una manifestazione vocale della relazione madre-bimbo piena di chiocciolii, schiocchi, gracidi (Stern D., 1981).
La voce assume un potere magico, segreto e nascosto, come un canto antico che ha potere in chi l’ascolta.

Lenisce i disagi del bambino e crea un legame che diventa più profondo e più vasto. Alimenta un flusso di parole che scorrerà anche quando fisicamente mancheranno, ma che sopravvivrà nel pensiero lasciando il segno mnemonico del legame originario.

La voce sarà il latte per il bambino (Castarède M.F., 1991) e la tonalità (l’altezza della voce determinata dalle vibrazioni delle corde vocali) sarà il mezzo con cui il bambino si rivolgerà a chi si cura di lui.

Dal terzo mese di vita in poi il bambino produce suoni, farfuglia e balbetta (bubbling), emette numerose vocalizzazioni che esprimono benessere e disagio. Il bambino si coinvolge in ripetizioni di suoni da ora fino al quinto mese, come da-da o ta-ta, ossia iterazioni che si trasformano in gioco vocale. Sono suoni che appartengono a diverse lingue. Se proviamo a battere la lingua contro la parete anteriore del palato, ci accorgeremo che stiamo producendo gli stessi suoni consonantici; questa è la lallazione, la quale, secondo una teoria elaborata dall’Università del Texas, è un fenomeno che ha influenzato le lingue del mondo. Vero o no, resta il fatto che è una tappa fondamentale dell’acquisizione del linguaggio.

L’holding nel primo anno di vita del bambino assume diverse forme, ad esempio attraverso le canzoni e le filastrocche che i genitori rivolgono al piccolo. È scientificamente riconosciuto l’aspetto educativo e cognitivo della voce, della melodia e dell’armonia usate dalla mamma e dal papà per rincuorare il proprio bimbo. La voce quindi assume il potere di strumento educativo oltre a rappresentare un contenitore di ansie e paure in quanto capace di diffondere fiducia.

A partire dagli otto mesi il bambino esprime suoni con intento comunicativo: inizia lo stadio pre-intenzionale. Compaiono, infatti, i primi veri morfemi (la più piccola unità di significato di una lingua) che il bambino ripeterà in un processo circolare (ecolalia); a 12 mesi circa compare l’olofrase, la “parola isolata”, che include implicitamente tutti i significati possibili. Per esempio “mamma” sta a significare “voglio la mamma”, se sta male il bambino vorrà dire “mamma sto male, aiutami” oppure significherà “mamma dai!” o ancora “mamma voglio quello”.
Dai 18 mesi in avanti costruirà frasi semplici (soggetto e verbo) per poi compiere, nei mesi successivi, un’evoluzione della sintassi (regole di una lingua per associare le parole) ed un incremento sensibile del lessico (l’insieme delle parole e dei vocaboli).
A 5-6 anniil bambino ha acquisito i fondamentali elementi del linguaggio ed è in grado di strutturare le frasi usando la grammatica in modo appropriato.

I periodi dello sviluppo finora descritti hanno uno scopo puramente indicativo: ogni bambino è diverso e unico. È fondamentale rispettare i suoi tempi evitando di incorrere in diagnosi infondate. “A ciascuno il suo ritmo”! È la mamma o chi si prende cura di lui che avrà la percezione equilibrata di eventuali anomalie nello sviluppo linguistico del proprio bambino e sarà lei, anche con il sostegno di esperti se lo vorrà, a rivolgersi agli specialisti affinché si intervenga in modo appropriato. Il bambino parlerà se non ci sono impedimenti uditivi, se ha l’opportunità di ascoltare, se è coinvolto nella comunicazione e se viene a sua volta ascoltato.
Comunicare con il bambino significa rivolgergli la parola, parlare con lui usando la voce dolce e le tonalità acute che stimoleranno la sua curiosità; la ripetizione delle parole-chiave (mamma, papà, nanna, pappa, letto, latte, ecc.) attiverà la sua memoria; parlare con lui guardandolo negli occhi lo impegnerà maggiormente nella produzione di parole perché inizierà ad avere coscienza della traccia che i suoni da lui prodotti lasciano in chi lo ascolta.

Come possiamo parlare con il nostro bambino?

Rivolgendoci a lui come se fosse un adulto oppure imitando la voce del bebè? Come ci poniamo di fronte al motherese?

Le parole hanno una notevole carica emotiva e affettiva sia per chi le pronuncia sia per chi le riceve. A seconda dei momenti, la mamma potrà modulare la propria voce accompagnata dal corredo paraverbale (i giochi di voce col timbro, il volume, ecc.) e non verbale (mimica, postura, ecc.) nella sua relazione col bimbo. Tutto ciò è percepito dal bambino come un bagaglio di informazioni attraverso le quali si sente compreso e sicuro. Rispondere ai suoi gorgoglii e vocalizzi con parole che non sono enunciate in alcun dizionario, vale a dire con quei suoni e parole spezzate che fanno da specchio, è del tutto naturale! Usare il linguaggio del bebè è naturale, normale ed istintivo (per qualcuno che ascolta e che non è coinvolto nello scambio empatico, può risultare ridicolo), ma il bimbo reagisce felice. E questo è quel che più conta! Il pediatra Brazelton B.T. sostiene che il bambino deve elaborare un gran numero di informazioni quando viene al mondo, quindi il motherese è un veicolo positivo a che ciò avvenga in modo più semplice. Non ci sarebbe neanche pericolo, a suo dire, che induca il bambino ad acquisire il linguaggio in modo scorretto. Appena il bambino avrà un lessico maggiore, anche la madre si adeguerà alla modalità più adulta di comunicazione col proprio bambino.
In sintesi, associare il parlare del bebè con il parlare dell’adulto non è una cattiva abitudine perché rientra nella pragmatica del linguaggio, ossia nella modalità di comunicazione interpersonale madre-padre-bimbo (per poi direzionarsi bimbo-altri da sé).
Mettiamoci ora nei panni del nostro bimbo: è bene parlare delle prime parole che proferirà anche da una prospettiva riferita alla semantica (significato delle parole). Le prime parole di un bambino sono incantesimi, originano nella magia. Ripetere dieci volte le sillabe mamma, mamma, mamma … provocherà l’apparizione davanti a lui di quella persona che magicamente soddisfa ogni suo bisogno. Egli è un piccolo mago che fa accadere le cose con le parole appena apprese. Alla fine del secondo anno di vita la parola “magica” (in questo caso mamma) sarà anche un’idea che verrà evocata quando la mamma è assente e quella parola ripetuta sarà la consolazione per la sofferenza del distacco. Il lessico di un bambino di due-tre anni ha caratteristiche, parafrasando la Fraiberg S.H. (2010), crepuscolari, ovvero più simile al modo dei sogni che a quello reale. Una bambina che fa il bagno nella vasca e vede l’acqua andar via “tutta” quanta dallo scarico, può associare che il “tutta” includa anche lei stessa e non deve stupire che una spiegazione razionale data con la lingua degli adulti, non riesca a convincere la nostra piccola. Il senso della realtà non è maturo, il mondo della bambina di due anni è tra il magico ed il reale così come le sue parole il cui significato appreso non è ancora analitico e contestuale.
Leggere ad alta voce, parlare e specificare ciò che avviene nella vita di ogni giorno definendo le azioni nel loro particolare, parlare rivolgendosi al nostro bambino, ecco! Questo aiuta considerevolmente l’acquisizione del linguaggio e il passaggio dal magico al reale. Ottima letteratura per l’infanzia circola in giro (nel blog potrete trovarne alcuni riferimenti) e sugli scaffali delle librerie specializzate. Concludo con un invito ad allargare i propri orizzonti: più parole, più concetti, più sogni positivi da realizzare

Bibliografia:
Bellagama, Cassibba, Sicurezza dell’attaccamento e lessico mentale, Psicologia Clinica dello Sviluppo/ a. XIV, n.3, dicembre 2010
Cianchetti, Sannio Fancello, TVL - Test di valutazione del linguaggio - livello prescolare, Erikson
S.H. Fraiberg, Gli anni magici, Armando Editore, 2010
G. Axia e S. Bonichini, La valutazione del bambino, Carocci Editore, 2000