In fatto di sviluppo del linguaggio è da considerare come punto di partenza indiscutibile il potenziale di ogni bambino. Se una delle maggiori riviste di pediatria (Nelson Textbook of Pediatrics, 18° ed.) sostiene che l’obiettivo dell’assistenza pediatrica consiste nell’ottimizzare questo potenziale, possiamo seriamente permetterci di rimandare lo stesso concetto sul piano educativo e pedagogico e affermare, insieme a Stephan Valentin (2011), che il potenziale genetico di ciascun bambino è come un hardware ed è compito di chi ha cura del bambino attivare e riattivare il disco rigido continuamente.
Questo processo di attivazione interviene in tutti i bambini, anche in quelli con deficit o assenza della parola, dell’udito e della vista. Il linguaggio è una funzione complessa e articolata in tante altre funzioni senso-motorie, neuro-cognitive e socio-emozionali; la sua acquisizione già nel primo anno di vita segna per il nostro bambino un ciclo nuovo per lui e per i grandi che gli stanno a fianco e intorno: un giardino che germoglia non è mai come un giardino seminato e alla vista spoglio, la germinazione è silenziosa ed invisibile, ma conduce all’inaspettato, al fenomenale e ad un tripudio di sensazioni uniche per chi assiste al suo progresso, come accade ai neogenitori. Il nostro piccolo d’uomo da analfabeta, illetterato e alquanto ignorante circa le cose della vita, ora inizia a dare segni di rimonta e comincia ad appropriarsi di un linguaggio di simboli verbali che ci assicurano (ebbene, sì!) l’esistenza di un pensiero tutt’altro che primitivo.
Senza scomodare necessariamente la pedagogia anglosassone del ‘600, secondo la quale la mente del neonato è tabula rasa, il nostro piccolo grande uomo alla nascita ha una mente, a dirla in modo cromatico, immacolata. La capacità di conservazione delle immagini (quindi la capacità di ricordare) per lui che non ha ancora compiuto un anno di vita, è debole. Ricordiamo che il nostro bambino apprende per schemi, ossia attraverso la prima forma di conoscenza organizzata che ha escogitato in seguito alla sua esperienza e alla sua percezione. Lo schema non è una copia della realtà, ma è un suo prototipo; creare un nuovo schema per il nostro bimbo significa metterlo a confronto con un’esperienza precedente già schematizzata e questo è provato già al terzo mese di vita.
Si dice, infatti, che nel neonato il processo di apprendimento avviene per contrasto: tra gli schemi a disposizione il nostro piccolo grande uomo pratica una discrepanza che rafforza o trasforma gli schemi preesistenti e ne assimila dei nuovi. Gli studi hanno evidenziato che il bambino ha una capacità molto precoce di classificazione. Uno schema che provoca gioia o eccitazione nel bambino, come potrebbe essere la scoperta di un gioco, un libricino colorato, un qualsiasi oggetto che catturi il suo interesse, allora può essere assimilato. Un altro schema che genera in lui ansia – un suono violento, un’immagine mostruosa, uno scossone – viene escluso perché non ha trovato il modo per comprenderlo nella sua struttura. Certo è che il gioco fra gli schemi provoca un cambiamento che stimola la mente.
La stimolazione acustica attraverso la voce è uno stimolo e questo è scientificamente ormai indiscutibile. Non è da meno la stimolazione visiva attraverso le immagini (come accade attraverso un ottimo libro cartonato o in un albo illustrato) che diventa stimolo per l’immaginazione e l’intelligenza. E non possiamo trascurare la stimolazione tattile (la manipolazione dei libri tattili) che nei casi in cui sopperisce la visiva è produttiva e creativa a livelli di genialità.

Lo sviluppo della memoria – che a noi interessa per il recupero delle tracce sonore e visive – durante il primo anno di vita permette al nostro bambino di associare le esperienze passate alle presenti: al termine di questo periodo il nostro bambino riesce a ricordare scavando nel fagotto dei ricordi. Tutti i ricordi pescati nel mare della mente sono strettamente legati alla codificazione linguistica nei bambini normodotati. Più una parola ed un concetto sono espressi ad alta voce dal partner di cura, maggiore è la fissazione della traccia mnemonica e grande è il beneficio fisico e psichico che ne può derivare.
Cosa accade quando la codificazione linguistica anticipa tutti i tempi e inizia già nel pancione della mamma? Quali gli effetti? Quali le conseguenze tangibili sia sul bambino che sulla diade mamma-bimbo? A queste domande corrisponde una risposta alla quale dedicheremo un spazio appropriato, ma per ora è importante riflettere sulla certezza di lasciare tracce anche quando il nostro bambino è in pancia.

E’ tempo di introdurre il concetto di comunicazione, ma in questo contesto ne parliamo come attivatore primario del potenziale genetico: sono, quindi, le parole della mamma e del papà o del caregiver a fungere da detonatori del potenziale, dell’immenso fantastico universo di possibilità che si cela dentro il seme in crescita. Senza fossilizzarci sul concetto di tabula rasa, cominciamo a considerare la continua influenza fra aspetti genetici ed epigenetici (il rapporto con l’ambiente naturale, familiare, culturale del bambino) e solo in questa prospettiva la maturazione del cervello del bambino, con le sue componenti cognitive, affettive ed emotive, diventa un discorso di apprendimento e di esperienze. La sua mente, quindi, si sviluppa nella relazione (materna, familiare, parentale, sociale, culturale, ecc.) e solo in essa. Al di fuori della relazione non c’è sviluppo, ma perdita, ritardo, fatica nell’apprendere.
L’apprendimento è essenzialmente relazionale. La specie umana ha una mente che si sviluppa all’interno di una relazione (Siegel, 1999). Certo, il ritardo potrà essere colmato più in là nel tempo, ma più tardi mancherà la facilità di apprendere e di progredire senza sforzo.
La letteratura neuroscientifica dimostra continuamente come lo sviluppo cerebrale, ed in particolare della regione orbito-frontale destra del cervello del neonato deputata alle funzioni emotive, è stimolata positivamente dalla voce della mamma con la sua intonazione, la melodia, il ritmo, le pause, con le parole, insomma.
Ecco, parlare di sviluppo del linguaggio significa parlare dell’interazione tra il nostro bambino e chi, come un satellite, sta con lui e gli indica il mondo: lo definisce per lui all’inizio e lo aiuta al contempo ad interpretarlo. Il suo satellite cioè la sua guida, tra alti e bassi, tra felicità e frustrazione, tra sorrisi e pianti, sempre insieme a cercare le parole giuste per colorare sempre di più questo mondo che magicamente da soggettivo diventa oggettivo. Rodari, un maestro della grammatica fantastica di cui solo un bambino può essere competente, ci ricorda che anche l’invenzione delle parole per interpretare il mondo non è sbagliata ai fini dell’evoluzione del linguaggio, anzi. È la tecnica dell’errore a diventare didattica e a stimolare la curiosità, elemento primo del divenire intelligente.
Ebbene, tutto questo fare è principalmente “responsabilità genitoriale”. Ed ora chi non se la sente di approfondire l’argomento in tutte le sue sfaccettature?