Cosa ci succederà da ora in poi? Chi lo può davvero sapere. Si usa salutare l’anno che si conclude con la speranza che ne arrivi uno migliore. In molte località le persone bruciano simbolicamente l’anno vecchio, come a lanciargli un grosso e corale vaffanculo liberatorio.

Quest’anno è un po’ diverso, sembra quasi di poter entrare nel mood “era meglio quando si stava peggio”, ma non nel senso dato dai nostri nonni che lo intendevano come un “stavamo bene quando avevamo poco”. Per noi è piuttosto un “ho paura che le cose precipitino ancora di più e furiosamente”.

Ieri pomeriggio, sul tardi perché ho procrastinato tutto il dì, sono uscita per fare alcune compere. Scendendo dalle scale condominiali ho incrociato i figli dei vicini, due ragazzi sulla ventina. Arrivati al box, hanno preso la macchina dei genitori e sono partiti in sgommata. Così facendo mi hanno inondata di ricordi, mannaggia a loro. Ho ripensato alle sensazioni di libertà che ho vissuto quando, io, mia sorella e gli amici di allora, prendevamo, uno dopo l’altro, la patente. Liberi di andare ovunque, liberi di sentirci adulti, liberi di illuderci che essere grandi fosse meglio.

Ai tempi, rispetto ad adesso, c’era ancora la libertà di muoversi. Oddio, più o meno. Ognuno in famiglia aveva, come dire, il suo dittatore. Mio padre, ad esempio, era più austero dell’attuale presidente. Mica mi permetteva di andare a ballare! Era convinto che le sale da ballo dei suoi tempi fossero tutt’altra cosa. Per questo ho ragione di credere che sicuramente si sarebbe rilassato alla notizia della chiusura delle discoteche.

Ricordo ancora la prima volta che gli chiesi il permesso di andare. Timidamente. Molto timidamente. Le mie compagne avevano iniziato a frequentare le discoteche già dalla scuola media. Andavano nei locali aperti al pomeriggio e poi, non contente, con tacchi altissimi e un chilo di trucco che le faceva sembrare più grandi, uscivano anche la sera.

Io, invece, la prima volta avevo 17 anni. Ero stata invitata da un’amica che compiva i suoi 18. Riuscii (non mi capacito ancora come) a ottenere il consenso dei miei, ma ero totalmente fuori dal mondo. Non sapevo nemmeno che, anche non consumando nessuna bibita, le diecimila lire gliele dovevi comunque lasciare. L’ho scoperto quando poi, uscendo dal locale, il buttafuori mi ha bussato sulla spalla.

S’impara, i papà si addolciscono, o si arrendono, e smettono anche di attendere i figli rientrare. La prima a prendere la patente è stata mia sorella. Ci passiamo un anno e, per fortuna, in quell’anno di attesa, in famiglia c’è stato un cambio di auto, dalla Ritmo alla Punto. La Ritmo! Ripenso ancora a quanta forza ci mettesse mia sorella per compiere qualsiasi manovra e quanto questo mi scoraggiasse a patentarmi. Passare alla Punto fu, per me, un gran colpo di fortuna.

piccole storie metropolitane
Un disegno che avevo fatto ispirandomi alle “Piccole storie metropolitane” del mio amico Loris.

In quegli anni leggevamo anche molti romanzi, spesso si cominciava da un autore e poi si proseguiva per un bel po’ a divorare tutti i libri scritti dallo stesso. Esordivano quindi i periodi De Carlo, Marquez, ecc, ecc. C’è stato persino il periodo Banana Yoshimoto, con lei mi sono innamorata del Giappone. Non dico che avessimo letto la totalità dei suoi libri ma di certo una buona parte.

Tutto è iniziato quando Irene Grandi ha dichiarato che il brano “La cucina” fosse ispirato a “Kitchen”, libro d’esordio della scrittrice giapponese. Ma ascoltando il brano capimmo che, oltre a cantare “del mio castello sono la regina ed il mio regno è la cucina”, non c’erano molte assonanze. Irene Grandi trasgrediva con Nutella, fragole e olive Saclà, la protagonista del romanzo invece mangiava pesce crudo anche a colazione (allora ancora non sapevamo bene cosa fosse il sushi, dunque rimanevo parecchio sconvolta quando leggevo il glossario dei termini al fondo del libro).

In Kitchen, la Yoshimoto racconta la famiglia, prima sgretolandola poi dandole nuove possibilità di esistere. Una storia complessa sulla vita e sul senso di solitudine giovanile. Dopo la morte dell’amata nonna, Mikage, la protagonista, decide di andare a vivere nella casa del padre, che nel frattempo era diventato madre.

Ripenso a tutto questo mentre entro al centro commerciale. Nonostante la buona volontà e gli addobbi, non c’è nulla che irrompe come atmosfera natalizia. Ci vorrebbe un tampone che misuri la felicità. La gente sembra spenta e mantiene la mascherina a coprire bene naso e bocca. Io faccio fatica e vorrei strapparla via. Mi scappa la pipì, come ogni volta che inizio a far la spesa. Con l’insistente stimolo proseguo guidata da una sorta d’isterismo. Faccio più in fretta che posso ed esco.

Ripensare a quei tempi mi ha fatto capire che, dopotutto, sono stati anni abbastanza (non mi sbilancio) stupendi. Non c’era nulla di che eppure sentivamo bene i sogni e la speranza per il futuro. Dunque, credo che avessero proprio ragione i nonni nel dire che era meglio quando si stava peggio.

Banana Yoshimoto in Kitchen ha scritto: “I ricordi veramente belli continuano a vivere e a splendere per sempre, pulsando dolorosamente insieme al tempo che passa.”

Buon 2022 a tutti voi.